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GIU 09 2018
Falstaff: tragedia e farsa ovvero la sdrammatizzazione, la sufficienza e l’indifferenza
Però che bella fine!… Se n’è andato come un bambino appena battezzato; tra le dodici e l’una è trapassato, giusto giusto al voltar della marea… Quando l’ho visto raspar con le dita le lenzuola, giocherellar coi fiori, sorridersi alla punta delle dita, mi sono detta: “Addio, questa è la fine!” William Shakespeare, Enrico V, Atto II, Scena III, (si piange la morte di Falstaff) I problemi vissuti dagli esseri umani hanno sempre un contenuto emotivo. Simmetricamente il disagio emotivo è un (il) problema. Il termine “vissuti”, quindi, è centrale. Ad esempio la carenza di denaro può rappresentare tecnicamente un problema, ma per alcuni non averne comporta sentirsi spensierati. Insomma nel momento in cui parlo con qualcuno di qualche difficoltà posso chiedergli “Ma ci stai male?” Se mi dice di no allora potei commentare: “Allora non è un problema.” Per converso se una persona sta male, per qualsiasi cosa, quest’ultima … ha un problema. Per un individuo il contesto che lega situazione – stato emotivo – problematicità è molto personale. Stare vicino e supportare una persona in difficoltà, per questo, è complesso e richiede cura e, in un certo senso, competenza. Uno dei pericoli più frequenti consiste nella “sdrammatizzazione” del vissuto. Si tratta in sostanza nel proporre una ristrutturazione del contenuto per la quale la situazione è soggetta ad una differente narrazione. Secondo quest’ultima il problema si ridimensiona, scompare o va eluso, dimenticato. È evidente che per una persona sofferente e che ritiene motivata la propria sofferenza, nel senso che i fatti difficilmente possono essere valutati positivamente, chi prova a sdrammatizzare si pone in un luogo altrove. La sensazione è che questa persona non abbia capito le conseguenze (nefaste) degli accadimenti, ne svaluti la portata o, ancora peggio, voglia negare l’adeguatezza dei sentimenti del sofferente. Dimostri, in sintesi, un senso di “sufficienza”. La reazione è sovente: frustrazione, senso di solitudine, aumento della tristezza e della rabbia. Quest’ultima è causata dalla presunzione che la negazione della gravità del problema sia tendenziosa. Ovviamente sdrammatizzare può avere una funzione positiva, ma a certe condizioni: a) la situazione deve presentare una ragionevole ambivalenza; b) deve essersi creato un buon rapport[1] e una condivisione (compassione) emotiva precedentemente alla transazione sdrammatizzante; c) il sofferente deve poter considerare la descrizione della situazione ristrutturata (sdrammatizzata) come un’effettiva opportunità di soluzione del problema. Se si considera quello che è stato detto all’inizio, ciò significa che egli, fatta propria la nuova rappresentazione, deve sentirsi meglio. Veniamo al primo punto. Se scopro di avere la macchina con una ruota a terra il mio amico salutista potrà dirmi “Dai, così facciamo assieme una passeggiata che ci fa bene.” Ma non funzionerebbe se questa passeggiata comportasse un ritardo al più importante appuntamento della carriera professionale del neo podista. Per cui è da evitare accuratamente di sdrammatizzare situazioni dove i problemi (i disagi emotivi) sono dovuti a cause ben fondate. Secondo punto: prima di sdrammatizzare posso scambiare informazioni per capire se è il caso di sperimentare l’opzione “sdrammatizzare”. Una situazione effettivamente grave non rende opportuna questa possibilità. In un contesto dove delle persone vivono un problema evidentemente e sostanzialmente grave, sdrammatizzare si risolve in un atto stupido, inefficace e disagevole dal punto di vista relazionale. Quindi, soprattutto se non si è tra i coinvolti nel problema, è indispensabile creare una buona relazione, valutare le informazioni (da acquisire – tante) e poi scegliere se percorrere la strada della “diminuzione”. Corollari fondamentali: non si sdrammatizza se si è in qualche modo la fonte del danno! Qui siamo al paradosso, … al “Oltre il danno la beffa!” La gravità di un fatto non può essere sminuita dal suo autore. Diversamente la reazione più frequente è quella di sentirsi presi in giro. Dare una gomitata in un occhio e dire “Beh, non ti sei fatto niente…” non serve al proprietario dell’occhio; serve all’autoassoluzione del possessore del gomito! Altro corollario: non sdrammatizzare se sei la persona cui il sofferente chiede aiuto, almeno in prima battuta! Diversamente la persona che presenta il proprio problema vivrà la sensazione di non essere compreso, … come se fosse “… un esagerato …”, come se il suo stato emotivo negativo non fosse giustificato; in definitiva come se i suoi sentimenti non fossero degni. Partite così e il risultato sarà pressoché certo: chi vi ha chiesto aiuto si sentirà abbandonato. Risulterete affetti da indifferenza. Terzo punto: la leggerezza non ha un valore in sé; può avere un valore di utilità. Alla riunione in cui si sancisce lo scoppio di una bolla finanziaria con conseguente miseria prossima per milioni di persone la leggerezza è semplicemente stupida e inutile. Se invece la leggerezza serve, allora ok. Ovviamente secondo il principio della comunicazione di Paul Watzlawick (vedi: P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. D. Jackson Pragmatica della comunicazione umana Roma, Astrolabio, 1978), “ …il buon comunicatore si vede dal risultato ….” se avete tentato la strada della leggerezza e avete fatto dei danni la colpa non è di chi non ha capito la vostra “arte” (?!?!), ma vostra che non avete capito abbastanza di quello che stava succedendo nel contesto comunicativo ove stavate operando. La capacità di essere leggeri deve sposarsi con la dolcezza, con l’attitudine all’ascolto, con l’umiltà, con l’elasticità mentale e con la capacità di essere, letteralmente, compassionevoli. Quando si riesce a sorridere e a piangere assieme per le vicende tragicomiche di Don Quixote o per il dolore di un altro “hidalgo”, Falstaff; quando si riesce a perdonare la sua supponenza comprendendo comunque il suo dolore per la svalutazione subita dal Re, … e a partecipare del suo dolore perdonando la sua alterigia, allora si può essere pronti a tentare la strada della sdrammatizzazione, che, come salto di codice, può essere una strategia tanto efficace quanto rischiosa. Se Shakespeare è il mago della commistione tra tragedia e farsa, a mio avviso è Cervantes che ci insegna che la possibilità vi sia qualcosa di cui sorridere circa gli atti o la vita di una persona, non ci permette (o giustifica) nel negare o sottovalutare la sua tragicità, nel sottovalutare o sminuire il tenore della sua sofferenza.

[1] Per la PNL si parla di una buona qualità della relazione, percepita anche a livello non razionale.

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