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GIU 04 2016
La visione di Cervantes – Don Quixote
“Nobilissima e pregiata signora, Il ferito dalle punte della lontananza e piagato dai dardi del cuore, o dolcissima Dulcinea del Toboso, ti augura quella salute ch’egli più non ha. Se la tua beltade mi sdegna, se i tuoi merti non mi sono favorevoli, se il tuo disprezzo alimenta la mia angoscia, benché io sia capace di sofferenza, mal potrei sostenermi in questa afflizione, che oltre ad esser forte sarà anche molto prolungata. Il mio buon scudiero Sancio ti darà piena relazione, o bella ingrata, o amata nemica mia, dello stato in cui per causa tua ridotto mi vedo: se ti piacesse di soccorrermi, son tuo; altrimenti fa’ come più ti aggrada, perrocché mettendo fine ai miei giorni avrò satisfatto alla tua crudeltade e a’ desideri miei. Tuo fino alla morte.” Il cavaliere dalla triste figura Miguel de Cervantes Don Chisciotte della Mancia Mondadori, Milano, 1964, p. 188.   È stato un pensiero di mio padre quello di acquistare alcuni classici della letteratura mondiale, in edizione rilegata, con le illustrazione di Gustave Doré. Tra queste il Don Chisciotte. Dell’autore, Miguel de Cervantes Saavedra, è fondamentale leggere la biografia romanzata a firma di Bruno Frank, (edita per Castelvecchi, Roma, 2016). Sebbene in forma romanzata, Frank racconta di come uno degli autori simbolo del Siglo de Oro abbia voluto vivere ad immagine e somiglianza … di un uomo la cui vita valesse la pena di essere vissuta; e questa rappresentazione, autogena, coincide con quella del “cavaliere”. A Lepanto, nonostante la febbre che gli avrebbe permesso di rimanere in disparte senza alcuna critica da parte dei suoi superiori, pur debilitato, si lancia nella battaglia in modo eroico continuando a combattere anche quando una pallottola lo colpisce alla mano rendendolo storpio per sempre. Anche l’amore di Cervantes per una donna da sogno, che poi scopre essere una cortigiana, è straordinariamente simile, per connotati, alla relazione tra l’amata Dulcinea di Don Quixote e Aldonza Lorenzo, la contadina un po’ facile che l’ha ispirata. Con tutta evidenza, quindi, Cervantes è don Quixote e l’opera è una sorta di biografia traslata. Se così non fosse, probabilmente la restante produzione di Cervantes non risulterebbe così “occasionale” rispetto alla sua opera più importante. Gli altri due autori “di successo” dell’epoca, Lope de Vega (Félix Lope de Vega y Carpio) e Calderón de la Barca (Pedro Calderón de la Barca) hanno prodotto, in termini di numero di opere, forse cento volte quello che ha realizzato Cervantes. Egli non vuole scrivere un romanzo storico, quindi, ma nemmeno un romanzo cavalleresco, lontano dalla realtà. Egli crea, con grande forza, il proprio mondo, in contrasto, e spesso in antitesi, con quello reale. Per questo l’autore ha scritto, in pratica, un’opera sola, … perché si tratta di un testamento in forma di romanzo. Sempre per questo la calda ironia dell’autore verso la sua creatura non la diminuisce mai. Don Quixote non viene dipinto in nessuna occasione come uno stolto; solo vive in un mondo tutto suo e il prosaico Sancho non dà mai giudizi di valore sull’universo del suo “padrone”; semplicemente lo salva riconoscendo che egli non è adeguato a vivere nel mondo reale. Il commento di Sancho (Sancio in it.), ad esempio, alla lettura della lettera con la quale abbiamo iniziato è esemplificativo. “Per l’anima di mi padre!” esclamò Sancio quand’ebbe udita la lettera. “Ma questa è la cosa più magnifica che io abbia mai sentito! (…) Come glielo dice bene qui tutto quello che vuol dire! (…) Ma lei l’è il diavolo in persona: sa fare ogni cosa!” (p. 188). È forse nel finale che Cervantes dichiara di aver voluto creare un unico personaggio, sintesi della sua visione; un personaggio eterno e assoluto. Questa fu la fine dell’Ingegnoso gentiluomo della Mancia, il cui luogo preciso di nascita non volle Cide Hamete mettere nel suo libro, perché tutti i villaggi e i paesi della Mancia si potessero contendere fra loro il vanto di avergli dato i natali, come fecero per Omero le sette città della Grecia. (…) Riporteremo tuttavia quello di Sansone Carrasco (epitaffio n.d.r.) “Qui giace il forte gentiluomo che arrivò a tal punto di valore, che la morte non trionfò della sua vita con la morte. Disprezzò l’universo intero, fu lo spaventacchio e il baubau del mondo, ed ebbe la gran fortuna di viver matto e di morir savio.” E il bravo Cide Hemete disse alla propria penna: “Per me sola nacque Don Chisciotte e tu per lui; egli seppe operare e io scrivere: noi due formiamo un tutto unico, ad onta del tordesigliesco scrittore dal finto nome, che si arrischiò o vorrà ancora arrischiarsi a scrivere con grossolana e mal temperata penna di struzzo le gesta del mio valoroso cavaliere; perché non è peso per le sue spalle, né impresa pel suo rigido ingegno. …”  (pp. 851 – 852) La follia di Don Quixote lo trasporta in un mondo immaginario dove il coraggio, la giustizia, la correttezza, la cortesia, la difesa dei più deboli, l’assunzione di responsabilità e l’amore totale rappresentano i fondamenti. E sembra quasi dolersi, Sancho, che il mondo sia ben meno nobile di quello creato, nella propria mente e nel proprio cuore, dal suo compagno di avventure. Cervantes ha voluto abbandonarsi al sogno di una realtà cavalleresca e lo ha fatto per mostrare la faccia nobile dell’essere umano. In questo caso l’ironia che permea il romanzo risulterebbe rivolta verso la miseria della vita vera. L’autore rappresenta uno splendido esempio di carattere paranoico; come la sua creatura, definisce relazioni tra i contenuti che la vita gli presenta attribuendo loro un senso definito a priori e dando quindi all’esistenza la forma voluta; i comportamenti poi discendono di conseguenza. In altre parole interpreta la realtà quasi forzandola in paradigmi che lui ha scelto e che considera gli unici possibili. Ma qual è la ratio di questa “paranoia”? Direi la difesa da un mondo che non vuole riconoscere come vero perché, almeno in questo caso, squallido. E allora, con sguardo sognante misto a disincanto, Cervantes crea per Quixote i suoi nemici, ma non dal nulla! Essi sorgono a partire, invece, da emozioni e sentimenti vivi che possono essere percepiti, ad esempio, da chi riesce a permettersi di guardare il panorama della Mancia concedendosi di ascoltare l’inquietudine prodotta dai famosi mulini. Chi riceverà il messaggio del romanzo? Chi è disposto ad incontrare un mondo fantastico, ma realizzabile? Chi si fa trasportare dal sogno possibile? Quel qualcuno cosa farà e come reagirà? Ma soprattutto: cosa resta agli altri? Che mondo è quello senza il “sogno”? E Cervantes? È proprio il Quixote rinsavito; è Alonso Quijano (nel romanzo, il vero nome del “cavaliere”) . Quest’ultimo riacquista il senno grazie alla febbre; mentre l’autore (vero) la riacquista dopo aver scritto e (ri-) vissuto le vicende, sue e del suo personaggio. Ma in che cosa consiste questo “senno”? Nel disincanto dell’accettazione che nel mondo non c’è spazio (o ce n’è poco) per lo spirito cavalleresco. Per questo poco dopo Don Quixote muore di dolore e Cervantes smette di scrivere. E allora cosa rimane, si diceva? Ogni pensiero è una struttura e ogni struttura lanciata nel mondo è un atto. Ogni atto riverbera e modifica il contesto, la cultura e l’anima degli uomini. Più semplicemente Cervantes ci mostra che il mondo può essere diverso, se non migliore. E così come Sancho, signore di realismo, rinuncia a ingenti possedimenti per restare col suo padrone che lo ha fatto accedere ad un mondo fantastico, inesistente ma possibile, anche Aldonza Lorenzo, quando leggerà le gesta dell’hidalgo e comprenderà che egli anche per lei è morto, sarà Dulcinea e lo sarà nella realtà oggettiva, perché l’amore ci cambia; ci cambia, però, in modi diversi: in un modo chi lo dà e in un altro chi lo riceve!molinos_consuegra_t4500271_jpg_369272544
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