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APR 19 2017
Magritte
“La realtà non è mai come la si vede: la verità è soprattutto immaginazione.” (René Magritte) Dal pezzo su Bosch non “riesco a lasciare” la pittura. Parlando di Basquiat ho considerato l’importanza di un periodo temporale, dal II dopoguerra in poi, che vede, a mio avviso, la morte dell’arte. Questo tema, la morte del pensiero creativo, questa prospettiva da “This is the end”, quest’immagine di un’umanità che saltella allegramente verso l’estinzione, mi ossessiona senza che io riesca a darmi torto. “Tirando una linea”, allora, mi sono trovato a riguardare ai miei pittori preferiti, oltre ai già citati, tra gli altri, diversissimi: Rembrandt, Renoir e … Magritte. Il pittore surrealista belga muore nel 1967, al momento giusto, diciamo proprio “alla fine”; un anno prima dell’incidente che per poco non sottrasse Basquiat al mondo. E qualche collegamento con il nativo di Brooklyn lo troviamo: dall’interesse per la grafica e le discipline limitrofe (anche per questioni di sopravvivenza …) alla prassi di includere parole all’interno delle tele (“ … questa non è una pipa”.). Anche sul ruolo di significante dell’opera troviamo punti di contatto: se Basquiat “esprime” disinteressandosi dell’opera in sé, è possibile affermare che anche Magritte non vuole usare la tela per mettere in campo tutta la sua capacità tecnica pittorica (… non sempre, non necessariamente). Sotto questo profilo i dipinti dell’autore de Gli Amanti sono, frequentemente, quasi imbarazzanti. Quindi il valore immenso del lavoro del tranquillo sabotatore si colloca altrove. Magritte ha una capacità speciale: quella di mostrarci oggetti, perlopiù appartenenti a un normalissimo reale, rendendoli inquietanti. Questo lo differenzia dai surrealisti: non c’è l’inconscio, c’è una strana, forse possibile, realtà e quando essa è irrazionale, comunque non irrompe. Certo molte immagini sono veramente impossibili, altre sono irridenti (come si conviene ad un “buon surrealista”). Ma quelle più sconvolgenti, per me, sono quelle dove la scena potrebbe benissimo esistere così come è stata dipinta. Per quanto a volte ci si trovi di fronte ad un “inaspettato”, spesso ci viene semplicemente chiesto di porci davanti ad uno spazio tranquillo osservato, tuttavia, da una distanza; quest’ultima non rappresenta tanto un intervallo spaziale quanto un’angosciante difficoltà, di chi ha l’opera davanti  a sé, ad accedere e far parte del normalissimo o possibile mondo ritratto. Il turbamento delle sue immagini oniriche nasce, quindi, dall’atmosfera della presentazione. Questa atmosfera è tranquillamente incomprensibile. Non c’è conflitto di forze, tutto è calmo. Ma simmetricamente l’animo del fruitore è sconvolto da oceani di angoscia, di straniamento, di insensatezza di fronte ad una realtà la cui calma serenità non può essere più, mai più, fatta propria. La conclusione è la scoperta di una pazzia che abbiamo sempre avuto dentro, di una verità sull’essere umano che ha sempre voluto credere di essere ciò che non è: un regolatore, un buono, un padre (madre), in sintesi, qualcosa di definito. Ecco, la scoperta di questo spazio vuoto può essere assimilata allo spazio creato dalle domande cui non c’è risposta, perché non c’è colui che risponde, del pressoché coevo esistenzialismo ateo (Sartre): “Se non c’è Dio allora deve esistere almeno un essere che si crea dopo la propria esistenza.” Vantaggiosa autarchia? Per Magritte, probabilmente, (anche) abissale solitudine.
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