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GIU 29 2020
Piranesi
Sognavo di poter vedere le carceri del Piranesi da più trent’anni. Le ho incontrate studiando il lavoro di Sergej Michajlovič Ejzenštein. Le argomentazioni si trovano nel paragrafo Piranesi o la fluidità delle forme a p. 128 del Capitolo Il pathos de La Natura non indifferente, Marsilio Bologna, 1988. Ovviamente non è possibile leggere questo testo ed evitare Teoria Generale del montaggio, Marsilio, Bologna, 1989. Per esporre la sua tesi, secondo la quale l’idioletto artistico è una questione di come vengono assemblate (montate) le “parti” dell’“opera”, si tratti di un testo o di un quadro o di un film, il regista russo porta una serie di esempi estremamente numerosa. Capiamo oggi, di passaggio, che quel tipo e quel livello di cultura è del tutto scomparso. Di questa serie infinita di esempi mi colpì quello relativo ad una lettura sequenziale delle immagini che il Bernini scolpì su otto delle facciate dei pilastri del trono della Basilica di San Pietro a Roma (racconterebbe degli stupri e degli infanticidi compiuti da Papa Urbano VIII Barberini) e quella relativa al makemono, pittura giapponese in rotoli per il fatto che qui il regista russo compie un errore nel descrivere come un voluta infrazione alle leggi della prospettiva il profilo che le montagne hanno normalmente (quelle più basse davanti e quelle più alte dietro). Ma quello che mi segnò di più fu quello su cui si dissertava del Piranesi; devo dire che mi sedusse anche la storia rocambolesca che aveva portato il creatore della oggi “famigerata” Corazzata Potëmkin ad entrare in possesso di (almeno) due opere del nativo di Mogliano Veneto. Oggi l’opera di Piranesi, al tempo di questo articolo in mostra a Bassano del Grappa, soprattutto le Carceri d’invenzione, viene giustamente accostata a quella dell’olandese Escher. Superficialmente, l’accostamento più immediato si deve alla condivisione del motivo ricorrente delle scale; scale che perlopiù non portano da nessuna parte (o ritornano all’inizio di loro stesse). C’è poi il senso di straniamento che pare quasi essere uno degli obiettivi principali di entrambi gli artisti. Ancora, il ruolo delle figure umane, rappresentate come marionette che fanno qualcosa, qualsiasi cosa, senza intenzione, meccanicamente. In Escher spesso salgono le fatidiche insensate scale, o stanno sedute o guardano non si sa cosa immobili. Possono a volte suonare una trombetta come in una grottesca. Quasi mai interagiscono. A volte sono senza volto. La perdita del senso della realtà dato dagli oggetti che diventano sfondo e viceversa si accompagna alla constatazione della perdita dell’umanità, del sentimento, del valore etico, di tutto ciò che, appunto, dovrebbe connotare l’“umano”. Possiamo dire che l’individuo senza umanità non può comprendere la realtà. In Piranesi ci ritroviamo di fronte alla stessa riflessione, ma con una differenza: se Escher si può guardare con distacco, questo non è possibile con Piranesi. Già nelle vedute di Roma, oltre alla vertigine data dal “salto di piani prospettici” di cui parla Ejzenštein, osserviamo l’abisso tra le persone, raffigurate nella misera vita di tutti i giorni e la grandezza raccontata dalle rovine da cui sono completamente separati; si tratta dei resti di un tempo andato che non può tornare. Come relitti, sembrano appartenere ad un’altra civiltà, lontana, forse umana. Altrove, animali, persone, oggetti, simboli, in parte accatastati in un disordine che forse è un ordine non più comprensibile. Nelle carceri, ancora peggio, siamo all’inferno; le scale, le dimensioni, le prospettive, sono senza senso. Solo raccontano di uomini che torturano altri uomini mentre altri ancora parlano o camminano. I corpi tirati con le braccia e le mani che diventano rami; il dolore, l’orrore, normalità quotidiana di corde, fuoco e fumo nero. Un tuffo nel baratro in piena maturità barocca, alla fine, prima del rococò. Le immagini sono spoglie, mal tratteggiate e contrastano con l’infinita precisione delle incisioni che hanno per soggetto Roma. Sembrano, come sembra che effettivamente siano state, l’opera di un pittore colpito da una febbre che lo ha reso folle. Ma il mondo che esce da questo artista che ha perso il senno è più vero del vero: una visione donchisciottesca dell’esistenza che ha perso la speranza di trovare l’altro. Troppo facile l’accostamento con la realtà di oggi dove azioni sciagurate, dei singoli e dei governi, appaiono come l’ovvia conseguenza di un’impostazione disumana dell’esistenza intrisa di egoismo, interesse, violenza e … nient’altro.
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